“Le donne hanno il diritto di salire sul patibolo, ma non sulla tribuna”, lamentava la protofemminista Olympe de Gouges, avviandosi alla ghigliottina nei giorni più cruenti della Rivoluzione francese. Passò molto tempo prima che le donne conquistassero il diritto a salire sulla tribuna, cioè a prendere la parola sulla scena pubblica ed affermarsi come soggetti attivi della e nella polis. In ogni paese le donne vi arrivarono con percorsi diversi e in tempi diversi, ma con un denominatore comune: finché la gestione del potere rimase appannaggio dei gruppi di notabili – come nell’Italia liberale – le donne ne furono escluse; solo con il nascere dei partiti di massa, in Italia alla fine dell’ottocento, le donne entrano finalmente sulla scena politica.
Nel particolare contesto della società italiana, bisogna peraltro distinguere due grandi filoni: quello di matrice cattolica – particolarmente vivo in Italia – e quello di matrice socialista. In questo le donne entrano portate prevalentemente dalle lotte sociali, senza un’organizzazione distinta, partecipando anche con ruoli di primo piano alla costruzione ideologica e alla formazione dell’indirizzo generale del partito. Fra i cattolici, le donne formano gruppi femminili separati, con piena autonomia, anche se in stretta collaborazione e con coincidenza di interessi con i gruppi maschili.
La prima guerra mondiale, introducendo le donne nel mondo della produzione, dove assumono mansioni e responsabilità che erano sempre state prerogativa degli uomini, accresce la loro consapevolezza e la loro partecipazione alla politica: infatti nell’immediato dopoguerra si comincia a porre la questione del voto alle donne. Ma per poco: sopravviene il regime fascista, che considera il Parlamento solo “un’aula grigia e sorda”, non ammette alcuna possibilità di esprimere giudizi politici liberi, toglie il voto anche agli uomini, e li obbliga – se volevano guadagnarsi il pane – ad aderire al partito fascista.
La maturazione politica delle donne italiane si afferma infine definitivamente con la Resistenza e nelle vicende, spesso tragiche e sanguinose, della lotta di Liberazione: è quello il momento in cui esse – anche le più umili – prendono coscienza del proprio peso politico, del proprio diritto-dovere di partecipazione, della necessità di non subire più la politica, ma di farla in prima persona. Un percorso che si può riassumere in alcuni numeri.
Durante la Resistenza, circa 35.000 donne militano nei gruppi combattenti, 512 sono comandanti o commissarie di guerra, 683 cadono in combattimento, 2.890 sono arrestate, torturate, condannate di tribunali fascisti, 1.750 vengono ferite, 2.890 sono deportate nei lager nazisti, e si calcola che circa 70.000 partecipino alle attività dei gruppi di difesa femminili. Ma sono innumerevoli le donne – operaie delle fabbriche o mondine – che nella scia della loro tradizione di classe si impegnano nella lotta antifascista. E ancora di più sono le impiegate, le professioniste, le intellettuali, che con slancio e dedizione formano un movimento di massa e rappresentano un salto di qualità nella partecipazione femminile alla cosa pubblica.
Va messo inoltre in rilievo anche il ruolo svolto dalle semplici casalinghe: esse sono protagoniste anzitutto di un’enorme operazione di “maternage”, quando soccorrono, sfamano e rivestono tutto un esercito disfatto e sbandato; dopo l’8 settembre 1943, ogni soldato tornando verso la propria casa trova ospitalità, cibo e abiti civili nelle umili case contadine dove certo non dominava l’abbondanza; ma le donne contadine identificavano quei fuggiaschi con i propri figli dispersi sui vari fronti europei, fino alla lontana Russia, e agirono nei loro confronti con spontanea umanità. Quando poi la Repubblica di Salò e l’occupante tedesco esigono che i giovani si presentino per il servizio militare o del lavoro, ogni ragazzo trova una donna di famiglia che lo nasconde, lo nutre, lo tiene informato. L’aiuto prestato al figlio o al fratello si estende poi naturalmente al gruppo di ribelli cui egli si unisce; il gruppo partigiano diventa quasi una famiglia allargata cui si continua a fornire alimenti, abbigliamento, informazioni.
Ma l’impegno resistenziale delle donne non deriva solo dalla loro tradizionale dimensione privata, dal lavoro di cura familiare e dai principi altrettanto tradizionali di ospitalità e solidarismo: alle donne si presentano ben chiari i motivi dell’antifascismo perché anche loro avevano subito patenti ingiustizie, soprattutto le operaie. Erano una massa importante e numerosa nelle fabbriche tessili dell’Alta Italia, ma anche nelle grandi fabbriche di Milano e Torino, dove sostituivano gli uomini richiamati al fronte; le donne partecipano in massa agli scioperi del marzo 1944 (a Milano sono le operaie della Borletti che vi danno inizio), quando lo sciopero era considerato reato penale. Gli occupanti non esitano a deportare migliaia di operai, fra cui molte donne che finiscono nei campi di concentramento.
Nel contesto di precoce libertà della Repubbliche partigiane, le donne ottengono i primi riconoscimenti: nella zona libera della Carnia hanno diritto di voto, purché siano capifamiglia; il che non era difficile in quei momenti in cui gli uomini erano dispersi in armi, come soldati o come partigiani, e nelle case erano rimaste le donne con vecchi e bambini. Nella Repubblica dell’Ossola poi per la prima volta nella storia d’Italia una donna entra a far parte del governo: è Gisella Floreanini, che diventa ministra per l’assistenza e salva dalla fame e dalla morte centinaia di bambini, organizzandone il trasferimento in Svizzera.
Nota Arrigo Boldrini: “Il censimento minuto ed esatto della somma di contributi femminili alla Resistenza è impossibile proprio per il suo carattere di massa: nel corso di quei due anni vi fu la contadina che compiva chilometri a piedi, in mezzo ai blocchi nazifascisti, per recare i viveri a un gruppo di partigiani; vi fu la casalinga che preparava indumenti da avviare alle bande in montagna; vi fu l’operaia che nascondeva un pezzo della macchina affidatale in fabbrica affinché i tedeschi non avessero interesse a portarla via o la produzione per loro conto venisse interrotta. Moltissime di queste donne non chiesero mai riconoscimenti e le cronache e la storia ne ignorano perfino il nome. Cosicché la pur elevata cifra di circa 35.000 donne insignite del titolo di partigiane combattenti non rappresenta che il contingente di punta di un più grandioso esercito di collaboratrici e sostenitrici della lotta”.
Le esperienze dolorose e drammatiche della guerra e della Resistenza portano finalmente le donne italiane sulla via della concreta parità giuridica con l’uomo. Il decreto legislativo luogotenenziale del 1 febbraio 1945 – a guerra ancora in corso – scaturito dall’accordo fra De Gasperi e Togliatti, estende alle donne il suffragio universale, alle stesse condizioni con cui il diritto di voto era riconosciuto ai cittadini di sesso maschile. (Ne vengono escluse le prostitute inquadrate nelle “case chiuse”). Le donne hanno occasione di esercitare per la prima volta tale diritto il 2 di giugno del 1946, quando si vota per il referendum istituzionale e per la formazione dell’Assemblea Costituente. Il corpo elettorale è costituito da 13.354.601 uomini e 14.610.845 donne. Nessuno sa se le donne si varranno in buon numero del loro nuovo diritto, ma esse dimostrano subito il loro pieno gradimento. Gli uomini votanti sono 11.949.056, cioè l’89,0% degli elettori iscritti, le donne sono 12.998.131, cioè l’89,2 delle iscritte: sono loro le madri della Repubblica. Solamente 21 sono però le donne elette alla Costituente: Teresa Mattei ne è la Segretaria di Presidenza.
Molte altre conquiste, sia sul piano legislativo che su quello – più difficile – del costume, le donne realizzeranno nei decenni successivi. Soprattutto il miracolo economico e il pieno impiego degli anni 50-60 aiuteranno le donne a prendere coscienza della propria dignità e del proprio valore, a impegnarsi nel mondo del lavoro, degli studi, della politica militante. Oggi la crisi economica e la vittoria schiacciante del pensiero unico liberista, che vuole annullare lo stato sociale e mina profondamente il principio cardine dell’uguaglianza, pretendono di fare tornare indietro le lancette della storia e tendono a schiacciare di nuovo le donne in una posizione subordinata ed emarginata. Difendere la Costituzione, nata dal momento esaltante della Resistenza, significa difendere anche il nostro essere libere donne in una libera società.
Nunzia Augeri