Lo scritto risale all’anno 1973, quando Raimondi si trovava a Città del Messico come addetto nel locale Istituto Italiano di Cultura. E’ stato elaborato su richiesta della allora studentessa universitaria Graziella Cavallero, laureanda in pedagogia presso l’Università degli Studi di Torino, nell’anno accademico 1973-74, che lo inserì nella propria tesi “I Convitti Scuola della Rinascita”.
I precedenti culturali ideologici dei Convitti Scuola Rinascita stanno in Gramsci, Banfi, Gobetti, Calamandrei, Concetto Marchesi. Si trovano allacciamenti con Gramsci perché questi ha rappresentato nella cultura italiana una posizione critica dei miti coltivati dal nazionalismo e dal fascismo; la sua opera fu quindi fondamentale per tutti gli antifascisti nel campo pedagogico.
Con Antonio Banfi invece abbiamo avuto dei rapporti diretti; io infatti ero allievo di Banfi, che anche durante il fascismo sempre stato su posizioni antifasciste. Egli anche se ufficialmente era professore nell’università dominata dai fascisti, dirigeva corsi che erano soprattutto di ispirazione antifascista, quindi quell’apertura verso una scuola attiva, democratica, noi l’abbiamo assimilata all’Università di Milano.
L’impostazione verso una cultura di libertà io personalmente l’ho avuta anche da Piero Martinetti, che è stato uno dei filosofi italiani che ha scritto dei libri sulla libertà in pieno periodo fascista, uno dei pochi che non ha mai giurato fedeltà al fascismo e si è ritirato dall’Università nel momento in cui si imponeva ai docenti il giuramento di fedeltà al regime. Con Antonio Banfi poi i rapporti sono sempre stati personali. Era un maestro che ci stava vicino, noi frequentavamo casa sua, durante il periodo fascista si tenevano conversazioni antifasciste, si immaginava già quale poteva essere il futuro del nostro paese quando il fascismo l’avrebbe ridotto, come diceva Gramsci, all’estremo della rovina.
Abbiamo anche avuto contatti operativi nella Resistenza. Banfi era a Milano, collaborava attivamente con le forze della Resistenza (CLN) e quando io ero in montagna, molto spesso venivo a Milano da Banfi per consigli sulla lotta partigiana, e così una volta caduto il fascismo con Banfi abbiamo insieme discusso i problemi della riforma della scuola e di impostazione di una cultura nuova.
Banfi ci è sempre stato vicino, ci ha consigliati, incoraggiati, aiutati. Con Banfi siamo sempre andati di perfetto accordo, anche se su particolari tesi si poteva discutere. Io per esempio ero d’accordo con Concetto Marchesi su una base umanistica per tutti. Banfi la riteneva una posizione conservatrice, sosteneva che bisognava fare scuole tecniche e professionali: quindi non lo studio del latino per tutti. Io invece ero per una base umanistica polivalente. Banfi però, nonostante alcune discussioni, ci ha seguiti ed aiutati anche nella sua azione parlamentare.
I presupposti ideologici della pedagogia dei Convitti venivano dalla tradizione della scuola attiva contemporanea, tradizioni pragmatistiche americane, come potrebbe essere la tradizione di Dewey, Kilpatrick o anche tradizioni nazionali che avevano i loro precedenti nella Montessori, nella Agazzi, fino ad arrivare a Codignola e all’esperienza di Scuola città che si sviluppò parallelamente alla nostra esperienza. In un certo momento, sia la Scuola città di Firenze di Codignola che i Convitti per orfani Rinascita erano sotto l’egida e all’attenzione dell’UNESCO internazionale, che li raccomandava ai Governi aderenti.
Naturalmente anche l’esperienza di Makarenko veniva tenuta presente, soprattutto per la relazione dell’educazione dell’individuo nell’ambiente sociale, nell’azione pratica e nel lavoro. Questo presupposto generale di una scuola che non fosse solo di informazione teorica, ma fosse di pratica democratica, di costume democratico e nella ricerca teorica fosse di apertura critica, di collaborazione e di ricerca comune di gruppo è il fondamento pedagogico dei Convitti Scuola della Rinascita.
Si sono poi sviluppate strutture adeguate per realizzare questi ideali di formazione di costume oltre che di mente e di sviluppo di prassi democratica e di ricerca scientifica e tecnica, che si unissero in una sintesi efficace di umanità e di sviluppo umano.
Circa l’organizzazione dei corsi professionali, che erano quelli che interessavano urgentemente e direttamente i giovani smobilitati dalla guerra, l’impostazione è stata fin dall’inizio organica, io direi scientifica, grazie anche alla collaborazione del professor Cesare Musatti e del professor Kanizsa.
Noi prima di tutto abbiamo previsto che i candidati ai vari corsi di specializzazione tecnica professionale dovessero avere i requisiti indispensabili per avere successo nella loro professione, e perciò nel Convitto di Milano s’era fatto uno studio sulle varie professioni, sulle caratteristiche che ciascuna professione implica nel suo esercizio, determinando, al di là del profilo professionale, anche il profilo attitudinale, ed elaborando in una maniera abbastanza precisa dei test di controllo della presenza di attitudini per la determinata professione. In un Centro di Orientamento agli studi e alle professioni si studiavano, per un periodo che andava da un mese a tre mesi, le caratteristiche dei vari allievi, si sottoponevano anche a dei corsi sperimentali per vedere come l’allievo resisteva nel tempo, nella costanza e nello sviluppo delle prime nozioni apprese forse facilmente.
La capacità di assimilazione era indicazione utile anche per l’orientamento, in modo che alla prova ambulatoriale cosiddetta psicotecnica si sostituiva una prova per così dire clinica, per vedere la resistenza dell’indicazione attitudinale e vedere le sue possibilità di sviluppo. Dopo questo periodo per così dire clinico, si consigliava, non si imponeva, agli allievi di scegliere un determinato corso professionale.
I corsi professionali venivano poi studiati in relazione a profili regionali di produzione e di sviluppo produttivo, in modo che in ciascuna regione si facevano corsi che nascevano dalle sue caratteristiche produttive. Così a Cremona in modo particolare c’era la tecnica del caseificio e dell’allevamento dei suini, a Torino corsi per meccanici e tecnici.
Vari congressi hanno poi messo a punto le caratteristiche dei Convitti, mentre in un primo tempo c’erano problemi di recupero anche agli studi tecnici. Ragazzi che avevano l’avviamento e volevano frequentare l’istituto tecnico trovavano nel Convitto corsi accelerati per sostenere gli esami nelle scuole pubbliche. Successivamente nei vari congressi i Convitti si sono specializzati di più nell’organizzazione di corsi che fossero adeguati alla regione dove sorgevano.
Ricordo che qualche volta ci inserivamo in scuole già esistenti, che non erano accompagnate da convitto, ma intervenuti noi, davamo la scuola completa, con convitto, con corsi fatti completamente da noi.
Novara ha avuto l’esperienza della scuola per bambini, la scuola visitata da Washburne e diretta dalla professoressa Anna Maria Princigalli, che aveva la caratteristica di scuola attiva, una scuola che fosse, in un certo senso, società vissuta oltre che scuola di tipo elementare.
A Bologna Molinella vi era una scuola di agricoltura, specializzata in viticoltura, orticoltura, frutticoltura, con pratica produttiva di tipo cooperativo. A Bologna città vi erano invece corsi di assistenti e disegnatori edili, poiché la ricostruzione edilizia era un’esigenza sentita in quel momento nella regione. Due sedi quindi a Bologna, una agricola nella campagna romagnola e l’altra di tipo edilizio. Naturalmente anche qui, oltre a corsi di tipo professionale specializzati, c’erano corsi di recupero in settori di istituto tecnico superiore per geometri e periti edili, che si facevano per presentare gli allievi agli esami normali negli istituti industriali tecnici dello Stato. C’era sempre la duplicità dei corsi: corsi di recupero agli studi per il conseguimento di un titolo di studio e nello stesso tempo corsi professionali tecnici di specializzazione, indipendentemente dal titolo di studio.
A Reggio Emilia, il Convitto Rinascita aveva caratteristiche similari a quelle del Convitto di Bologna. Comprendeva infatti una sezione agraria (di meccanica agraria) e una sezione di assistenti edili e geometri. Il Convitto di Reggio Emilia ha indicato la sua validità perché, in un certo momento, in mancanza di fondi, gli allievi con i professori avevano organizzato la costruzione di case, di macchine, di apparecchi meccanici agrari ed era nata una specie di azienda che finanziava il Convitto, come del resto a Cremona, dove a un certo momento i convittori producevano formaggio, allevavano maiali e vendevano i loro prodotti, autofinanziandosi; quindi, a parte il vantaggio tecnico del passaggio alla produzione, si trattava anche qui di una scuola-azienda.
In un congresso si era lanciata l’idea di trasformare tutti i Convitti in scuole-aziende, poiché i Ministeri ritiravano i finanziamenti, nonostante l’intervento suppletivo di Fanfani per il finanziamento ai corsi professionali. Si doveva infatti risolvere il problema dell’autonomia finanziaria, e si è formata una scuola-azienda anche a Milano, dove i grafici pubblicitari hanno formato una cooperativa il cui scopo era quello di impiegare gli allievi, di dar loro la possibilità di un’applicazione produttiva, diretta, quotidiana, delle nozioni che imparavano, e nello stesso tempo c’era la finalità di raccogliere fondi per il Convitto. La cooperativa da quando è nata ha sempre dato fondi al Convitto e ha sempre dato la possibilità di lavoro agli allievi, al di là delle lezioni, e ancor oggi l’Organizzazione C.R. dà contributi al Convitto.
Anche a Sanremo il Convitto gestiva un albergo che aveva sede ad Ospedaletti, con introiti che andavano al Convitto: quindi cuochi, portieri, camerieri, amministratori, tutti convittori. Ad un certo momento però il proprietario dell’albergo, normalizzatesi le relazioni internazionali del turismo, ha revocato a sé la gestione dell’albergo.
Quello che sopravvive ancor oggi è un’attività produttiva in forma cooperativa a Reggio Emilia nel campo della meccanica agraria e a Milano nel campo della pubblicità (quindi anche allestimenti per fiere), attività che dà a Milano contributi al Convitto sotto forma di borse di studio. E’ fallita quindi la scuola-azienda, ma è continuata l’azienda cooperativa.
La mia attività nei Convitti è stata dura; appena tornato dalla montagna mi sono trovato in mezzo ai giovani partigiani; io avevo la fortuna di aver già terminato gli studi e mi sono occupato subito, dal maggio 1945, di organizzare corsi accelerati introducendo variazioni metodologiche. I corsi erano molto interessanti, ma erano per me di un impegno enorme; poi i ragazzi stessi hanno moltiplicato il loro entusiasmo, portando le iniziative di un Comitato Promotore a Torino e in altre città, andando incontro a esigenze che erano sentite; anche se i partiti non diedero pubblicità a questa attività l’esigenza dei giovani ha risposto immediatamente: infatti a Torino, a Genova e in altre città abbiamo trovato partigiani e reduci che condividevano le nostre esigenze.
Io ho lavorato per anni, senza vacanze, andando di città in città, seguendo le riunioni dei Congressi dei Convitti fino al 1959. La condizione degli insegnanti come me, nei Convitti, grazie alle disposizioni alleate, è stata quella di comandati ai Convitti. Io all’inizio insegnavo storia, non dimenticando però alcune lezioni di latino in forma viva attraverso scene di vita romana; non insegnavo a tradurre in latino, ma a scrivere, a comporre in latino. Il latino quindi veniva imparato in forma viva, oltre che come mezzo per una chiarificazione delle categorie logiche del linguaggio. Questa fu una delle prime esperienze didattiche; poi c’era la grande esperienza che ormai veniva anche dalla vita partigiana, che era quella dell’informazione storica, del chiarimento della situazione storica in cui vivevamo, dei motivi dell’antifascismo, dei risultati a cui eravamo arrivati, probabilmente già allora con parecchie amare disillusioni circa l’incompiutezza della Resistenza italiana e circa tutta una problematica che veniva discussa, come quella sulla accettazione passiva della caduta del Governo Parri. I partigiani nella loro considerazione storica non accettavano una passività che invece si è realizzata per combinazioni politiche che noi non condividevamo.
Insegnante di storia, insegnante di latino, partecipavo in modo particolare allo studio di nuovi programmi, seguivo con interesse per esempio la professoressa Alba Dell’Acqua, che aveva già in mente una riforma dell’insegnamento della matematica, anticipando molte cose che sono venute dopo; anche in materia di fisica c’era l’ansia della constatazione sperimentale in laboratori sia pur rudimentali, messi a disposizione dei ragazzi per verificare le nozioni teoriche.
Così siamo andati avanti con un nucleo di professori comandati pagati dallo Stato, che lavoravano con noi; professori emeriti, basti pensare al professor Lucio Lombardo Radice, a Mario Alighiero Manacorda, a Quaroni, a Galliussi, al professor Ezio Raimondi di Bologna, a Vittorini. C’era quindi un’apertura non solo nell’attività scolastica, ma anche nell’attività pubblicistica. Io per esempio ho collaborato con Vittorini nei primi numeri del “Politecnico”. Era tutta un’attività di questo tipo, organizzativa, di controllo tecnico, di studio, di programmi, di controllo di metodi, di direzione di commissioni di studio.
Prima insegnavo a Milano, poi per un certo periodo sono stato a Roma, quando c’era la necessità di una organizzazione più osmotica fra i vari Convitti in maniera da specializzare ciascuno nel suo settore, di sollecitazione di congressi dove ciascuno portasse le proprie esperienze e facesse i propri rilievi.
C’erano concorsi, lavori di orientamento agli studi e alle professioni, studi di programmi, profili professionali, profili attitudinali. Passavo di volta in volta nei vari Convitti, partecipavo alle assemblee ascoltando i loro problemi, contribuendo a un lavoro comune che era un’ansia di perfezionamento, non solo dal punto di vista organizzativo, ma anche dal punto di vista tecnico delle attività che si svolgevano.
Io sono stato l’ultimo professore comandato ai Convitti; poi a un certo momento mi hanno tolto il comando e sono stato a Varese, poi al liceo Volta di Milano, ma ancora andavo spesso a far lezione in Convitto nelle ore libere. Naturalmente questo era un esempio per tanti altri insegnanti che ormai avevano abbandonato il compito, per resistere, a dispetto di tutti, nell’organizzazione di queste scuole.
Poi sono intervenute alcune complicazioni politiche, poiché sono stato espulso dal Partito comunista italiano.
Mi sono fermato al Convitto fino al 1959. C’era la scuola media e tutti i corsi professionali che ci sono ancora oggi, frequentati da circa 400 allievi. I corsi professionali sono l’ultimo residuo delle attività del Convitto di Milano.
L’unica cosa che possiamo deplorare è che non si riscontrava un’analoga apertura mentale nei politici che facevano solo “politica”. Essi ritenevano che il problema della scuola venisse dopo la risoluzione del problema strutturale politico e sociale, mentre noi dicevamo che nello stesso tempo bisognava anche affrontare il problema di una riforma profonda della scuola. Le due esigenze, vale a dire di scuola di costume democratico e di scuola rivoluzionaria nel senso culturale – cioè che impostasse diversamente la cultura, l’informazione ai giovani e la partecipazione dei giovani alla ricerca – i politici le intendevano poco e pensavano che prima di tutto bisognasse conquistare il potere e poi fare le loro scuole.
Noi invece eravamo del parere che bisognasse contemporaneamente preparare un uomo nuovo, con tutte le difficoltà che avrebbe presentato l’inevitabile lotta che si sarebbe accesa sul problema della cultura e sul problema dell’organizzazione della scuola. Oggi purtroppo abbiamo l’amaro dovere di constatare che l’esigenza di una riforma strutturale della scuola, una riforma radicale nel senso di offrire veramente la cultura a tutti e di stroncare le vecchie tradizioni culturali false e retoriche, è una esigenza ancora viva oggi dopo tanti anni, mentre si poteva su base politica anche ampia – perché dei democratici cristiani di sinistra erano con noi – già avviare allora; aspettando invece di risolvere il problema politico, che è ancora alla fase di trent’anni fa, non si è risolto ancora il problema della riforma della scuola.
Io ricordo che la nostra prima proposta era quella – anche se puzzava un po’ di anarchismo – di sostituire gran parte delle spese militari con le spese per l’istruzione. Avevamo già fatto un progetto, presentandolo a un governo dove c’erano anche i comunisti, per la trasformazione in scuole di novanta caserme in tutte le province italiane; occorreva cioè trasformare le spese, non solo quelle dell’Assistenza postbellica, ma le spese militari, in spese per l’istruzione. E su questo programma erano d’accordo tutti, anche i partiti, solo che a un certo momento l’hanno ritenuto utopistico, azzardato, e perfino dei comunisti mi hanno rimproverato di anarchismo, di voler distruggere il Ministero della Difesa, mentre io sostenevo che anche nel caso di una difesa la gente preparata tecnicamente e con una coscienza politica chiara vale di più dell’ufficiale in servizio permanente effettivo; l’abbiamo visto anche durante la guerra: i problemi più difficili non erano risolti dall’ufficiale di carriera, ma dai giovani che avevano una preparazione tecnica e politica. Giovani più preparati sarebbero stati gli elementi più efficienti per una difesa, ma il discorso è stato lasciato cadere e mote caserme sono state vendute.
Noi avevamo proposto che molti campi di aviazione, organizzati durante la guerra e che poi si liquidavano, si trasformassero in aziende agricole per fornire l’alimentazione alle scuole. E’ successo invece che, smobilitati, i campi di aviazione militare sono andati a finire ai privati che ne hanno fatto delle speculazioni, quando con poca spesa si poteva già affrontare allora la riforma della scuola.
La scuola, a parte la rivoluzione culturale nel senso critico antifascista, doveva essere la leva delle intelligenze, doveva dare la possibilità, mediante collegi di tipo popolare, a tutti quelli che avessero volontà e capacità, di svilupparsi il più possibile, con enorme beneficio della società nella quale vivevamo e viviamo tuttora. Il risultato sarebbe stato quello di un grande investimento in capacità tecniche di lavoro e anche morale del nostro paese.
Questa è stata un po’ la storia dei nostri rapporti con la cultura antifascista, ed i programmi che ne sono seguiti dovevano costituire una grande riforma della scuola nel senso di dare a tutti effettivamente la possibilità di studiare, il che secondo noi era possibile proprio mediante quei “college” dove non si tratta solo di scuola, ma si tratta di vita completa, con la possibilità di avere una biblioteca, dei laboratori, di stare in contatto quotidiano con i professori; non certo creando un’isola, perché i ragazzi potevano partecipare fuori a teatri, conferenze, riunioni sindacali. In principio infatti avevamo l’incoraggiamento di tutti, ci venivano dati i biglietti per il teatro ed il cinema.
Era la nostra un’organizzazione che proiettava i giovani fuori, era una comunità dove era possibile avere gli strumenti che non si trovavano a casa. Volevamo qualcosa come una grande moltiplicazione di istituti, come l’Istituto Normale di Pisa, dove l’allievo ha tutto, dal maestro alla biblioteca, la libertà di ricerca e l’aiuto nella ricerca.
Se si fosse risolto questo problema in grande stile sarebbe stato un vantaggio enorme non solo per risolvere il problema della formazione dei giovani, ma anche per il lavoro e le attività produttive del nostro paese.
Le convenzioni con il Ministero dell’Assistenza postbellica sono state ottenute grazie all’intervento della professoressa Maffioli sulla figlia di Nenni, la quale si è rivolta al Sottosegretario all’Assistenza postbellica; questi ha deciso di dare i contributi per l’assistenza che poi noi abbiamo trasformato in finanziamenti per l’istruzione. Emilio Sereni era Ministro dell’Assistenza postbellica, però è stato soprattutto il Sottosegretario, il medico napoletano Berardinone, sollecitato dall’intervento della figlia di Nenni, che ha firmato le convenzioni.
Il nucleo iniziale dei convittori sono stati i partigiani, dopo sono venuti i reduci, i quali sentendo che questa istituzione risolveva i loro problemi umani quasi quasi non si differenziavano dagli altri, forse erano più scettici, ma dopo cinque o sei mesi che erano nel Convitto erano all’avanguardia dell’operosità, dell’attività e dello studio.
Erano uomini rinati. Non parliamo poi dei mutilati che arrivavano molto sfiduciati, ma ad un certo momento rinascevano attraverso la capacità tecnica che andavano assimilando, come per esempio quella di orologiaio o di odontotecnico.
Ci siamo occupati anche dei corsi per mutilatini, avevamo cominciato prima di Don Gnocchi a fare questo lavoro, con una convenzione con l’Opera Nazionale Mutilati e Invalidi che era entusiasta del nostro lavoro. Don Gnocchi poi è diventato vicepresidente dell’Opera Nazionale Mutilati e Invalidi, ci ha tolto la convenzione, e noi abbiamo dovuto interrompere i corsi speciali per mutilatini a Novara. Il recupero dei mutilati adulti e dei mutilatini alla professione è stata comunque una nostra iniziativa.
Dai Convitti sono usciti circa 5.000 allievi e io posso dire con grande soddisfazione che nella maggioranza non si sono conformisticamente integrati nella società, perché alcuni sono sindacalisti, altri operano in associazioni culturali progressiste o sindacali, o nei partiti politici di sinistra; si sono inseriti tutti nella società come elementi attivi. E’ commovente per me ritrovare ora a Bergamo un convittore mutilato agli arti inferiori, sapere che possiede una serie di orologerie e conduce una vita serena e tranquilla con la sua numerosa famiglia, mentre quando era arrivato in Convitto era al limite della pazzia.
Molti degli ex convittori sono oggi dirigenti, tecnici e presidenti di cooperative edilizie ed occupano delle posizioni chiave nell’economia delle regioni in cui vivono, anche nel settore alberghiero, turistico ecc. Tutta questa gente ha trovato una maniera di operare nella vita. L’ideale sarebbe stato che operassero in una società in un certo senso socializzata.
I motivi della chiusura e della fine dei Convitti sono di natura politica, di opposizione alla continuazione della Resistenza sotto forma di attività civile. Ad un certo momento le nostre scuole sono state accusate di essere il covo di sovversivi, di terroristi. Politicamente esse erano uno schiaffo alle grandi tradizioni clericali di scuole dove non spira mai un soffio di rinnovamento. La nostra concorrenza ha sempre dato fastidio, fino ad arrivare ai limiti dell’esasperazione, quando si trattava di bambini.
Per anni, per decenni, abbiamo affrontato le calunnie sulla stampa; si parlava di covi di sovversivi, poi quando venivano gli ispettori capivano che dal punto di vista tecnico le nostre erano scuole di alto livello, dove si studiava davvero. Io dico che la fine dei Convitti è stata voluta soprattutto dalle organizzazioni cattoliche di destra che volevano il monopolio assoluto dell’istruzione, come avevano avuto per anni. La contrarietà ad iniziative laiche nel campo della scuola è stato il motivo fondamentale.
C’è stata però una frattura perché se Andreotti e Scelba erano contrari ai Convitti fino ad emanare ingiusti decreti di sfratto, Fanfani era nel dubbio: ci dava dei fondi per istituire corsi professionali e ci mandava lettere di elogio. Era però anche lui obbligato a seguire la politica del suo partito e firmava la rescissione delle Convenzioni.
Personalmente abbiamo trovato dei democristiani che hanno riconosciuto che la nostra iniziativa era legittima anche nell’ambito costituzionale. Noi eravamo dei privati che facevano scuola e chiedevano i fondi dello Stato. Noi facevamo sul serio, avevamo di fronte degli uomini che potevano dire la loro e pretendevano un’istruzione seria.
Se poi si considera come si è sviluppata la situazione politica dal 18 aprile 1948 a oggi è chiaro che istituzioni di questo tipo non potevano esistere. Ma io sono del parere che i Convitti scuola Rinascita avrebbero potuto sopravvivere se le stesse forze di sinistra avessero capito il problema.
In fondo il Convitto di Milano è resistito per un atto di indisciplina ribellistica che abbiamo fatto noi nel 1955 contro lo sfratto, quando i grandi gerarchi dei partiti comunista e socialista venuti da Roma ci hanno dato ragione e si è trovata la soluzione con le officine Tallero di Milano. Ora risposte di questo genere avrebbero salvato la situazione degli altri Convitti.
I principi erano validissimi, non erano principi di un partito, ed erano veramente calunniose le accuse che ci muovevano di essere scuole di partito. I Convitti Rinascita erano soprattutto scuole di giovani che con la democrazia volevano essere delle persone, e se non avevano i mezzi lo Stato doveva investire i fondi (anche sottraendone una parte ai bilanci militari) per la costruzione della personalità degli individui.
Il problema era politicamente vastissimo, quindi anche in sede politica io mi meraviglio come al giorno d’oggi non si sia fatta una riforma veramente radicale della scuola. Non era una riforma comunista, ma una riforma della società italiana, un investimento di fondi pubblici utili al paese, evitando una perdita di tempo enorme, che dura ancor oggi.
Io mi sono meravigliato come i partiti abbiano impostato i programmi politici sempre scollati dal paese. Riforme di democrazia umana e di sviluppo culturale e tecnico si possono fare anche con l’alleanza di una frangia notevole della borghesia illuminata, ed è una vergogna che a trent’anni dalla caduta del fascismo si parli ancora di riforma della scuola.
La riforma non si fa con delle pezze assistenziali, si fa risolvendo i problemi.
Sono finiti così i Convitti perché c’è stato un difetto, che è quello che vediamo ancor oggi, di uno scollamento anche delle attività politiche dei partiti italiani nell’affrontare i problemi reali della società. Il Partito comunista non si occupava con la determinata consapevolezza che imponeva il problema, ed infatti io non sono mai riuscito ad imporre ai politici, ai responsabili del partito, il problema della scuola; ne scrivevamo sui nostri opuscoli, che erano quasi clandestini, non ufficiali, non riconosciuti.
Il problema era quello di costruire una nuova scuola, era quello del “collegio popolare”, aperto a tutti. Se si vogliono dire cose non false sulla possibilità di studiare, si deve dare tutto al giovane che non ha mezzi propri. Gli inglesi lo sanno e hanno fatto il “college” d’élite. In Italia la Scuola Normale di Pisa è stata un esempio formidabile di cosa si può ottenere con uno strumento adeguato di sviluppo della responsabilità e capacità culturale dei giovani. Scuole di questo tipo andavano moltiplicate per tante province, impiegando i fondi dello Stato.
Per me c’è stato un difetto totale della classe politica italiana, da parte di quelli che volevano conservare il sistema del passato è stato un atto di abilità incredibile, perché ci hanno messo a terra a poco a poco; hanno impiegato degli anni, ma ci hanno messo a terra implacabilmente; da parte di chi era convinto della giustezza di quanto noi affermavamo c’è stata una incredibile passività e oggi la scontano con il caos in cui si trova il problema della formazione dei giovani, del rinnovamento culturale. I Convitti Rinascita esprimevano invece il concetto di una autentica rinascita democratica e culturale italiana.