di Alberto Del Pizzo
Il breve testo venne scritto alla morte di Raimondi, nel 1996, da Alberto Del Pizzo, suo collega all’Istituto italiano di cultura a Città del Messico, dove collaborarono per alcuni anni. Del Pizzo, professore di letteratura italiana, è noto per il suo romanzo “Il monumento”, spietato ritratto della provincia italiana attraverso le vicende del XX secolo.
Quando Luciano Raimondi venne a Città del Messico come addetto all’Istituto italiano di cultura, nell’ottobre del 1966, io ero lì con le stesse funzioni da quasi tre anni. Città del Messico, pur lontana dall’aver raggiunto le dimensioni attuali, era già una grande metropoli di circa sei milioni di abitanti, a cui la persistenza di caratteri culturali delle antiche civiltà autoctone, della colonizzazione spagnola e dello Stato sorto all’inizio del secolo scorso dalla lotta per l’indipendenza dava un affascinante carattere multiculturale, che certamente non era stato estraneo alla decisione di Luciano di presceglierla (come era accaduto a me) tra le sedi propostegli dal Ministero degli affari esteri.
Nel tessuto urbano le testimonianze delle civiltà precolombiane sopravvivevano tra le architetture barocche dell’età coloniale, quelle eclettiche dello Stato indipendente, che aveva preso prevalentemente a modello la Francia di Napoleone terzo, e le modernissime strutture in vetro e cemento suggerite dai modelli americani.
Luciano andò a vivere in un grande palazzo moderno che sorgeva nel cuore antico della città, così che dalle finestre del suo appartamento poteva ammirare i resti del grande tempio azteco di Tlatelolco distrutto dai conquistadores, la chiesa di San Giacomo eretta dagli spagnoli a celebrazione della propria vittoria, e un complesso di grandi edifici recenti, dominati dall’imponente facciata del Ministero degli esteri. Perciò la piazza è stata chiamata “delle Tre Culture”.
Naturalmente è da credere che Luciano Raimondi, ben al di là di queste emblematiche sintesi architettoniche, sia andato a cercare il suo Messico più autentico nella vivacità della vita quotidiana, nelle mille testimonianze offerte dalla gente che animava le strade e i mercati, portandovi la colorita varietà della propria cultura materiale, dei prodotti del proprio lavoro, dell’abbigliamento, delle lingue e della propria particolare esperienza di vita. Nel Messico di quegli anni erano ancora vivi, nonostante numerosi sbandamenti e contraccolpi, i fermenti e le idealità della grande rivoluzione del 1910-17. Persistevano squilibri e ingiustizie drammatici, ma lo Stato continuava a richiamarsi agli ideali mai rinnegati di quella rivoluzione, e l’arte e la letteratura continuavano ad esaltarli. La vita culturale, già ricca e vivace per l’attività di alcune grandi personalità della prima metà del secolo, si giovava dell’apporto di perseguitati politici provenienti da vari paesi: gli esuli della Spagna franchista, accolti numerosi dopo il crollo di quella repubblica; gli ebrei sfuggiti alle persecuzioni naziste; gli oppositori delle numerose dittature latinoamericane che a Città del Messico e nelle sue strutture culturali – università, musei, giornali, case editrici di respiro continentale – trovavano occasioni di incontro e di dialogo, oltre che possibilità di lavoro incomparabilmente più numerose che in ogni altro paese dell’America Latina. La letteratura e le arti vantavano personalità di rilievo internazionale, come il poeta e saggista Octavio Paz, successivamente insignito del Premio Nobel, e i romanzieri Juan Rulfo e Carlos Fuentes, ampiamente tradotti e conosciuti in molti paesi e anche in Italia. Nel campo delle arti figurative l’esperienza del grande muralismo messicano, scomparsi J. Clemente Orozco e Diego Rivera, continuava nell’opera di David Alfaro Siqueiros, impegnato in quel periodo nella realizzazione dei due giganteschi murales del Poliforum che oggi porta il suo nome.
Luciano Raimondi si fece subito apprezzare, nell’Istituto e fuori, per la sua preparazione culturale, per l’ampiezza dei suoi interessi e la sua generosa disponibilità. Poiché la nostra attività permetteva, anzi richiedeva, una grande varietà di contatti e ci offriva frequenti motivi di visitare anche le città minori in occasione di manifestazioni culturali italiane organizzate con la collaborazione delle istituzioni locali, egli fu lieto di estendere e approfondire la conoscenza del paese nei caratteri distintivi delle varie regioni.
Allo stesso modo, uomo di scuola, affezionatissimo alla funzione docente, fu felice che l’incarico della lingua e della cultura italiana nell’Istituto nazionale politecnico gli offrisse la possibilità di stabilire un solido legame con gli studenti messicani. Nella pratica di quell’insegnamento egli andò maturando un metodo didattico originale che di lì a qualche anno diede un primo frutto nel corso radiofonico “L’italiano attraverso le sue canzoni” e poi un secondo, “L’italiano oltre le sue canzoni”, basato su scene di cinema e teatro. I due corsi furono ampiamente adottati in gran parte delle scuole di italiano del Messico e anche altrove, nonché trasmessi alla radio tutte le mattine per più di vent’anni. Un terzo corso, basato sulla letteratura italiana di questo secolo, è rimasto purtroppo incompiuto.
Gli interessi prevalenti di Luciano restavano però quelli filosofici, e perciò ogni volta che nell’Istituto si presentava l’occasione di trattare argomenti di quella natura, l’incarico era suo. Ricordo una sua conferenza sul pensiero di Machiavelli, tenuta in occasione del centenario della nascita; una sua commemorazione di Gian Battista Vico, che fu in parte pubblicata sulla rivista del Politecnico, una su Gramsci, apparsa sulla stessa rivista; una conferenza sulla filosofia di Pirandello inserita in un ciclo sul teatro pirandelliano, e ricordo alcuni suoi interventi a commento di documentari del Festival dei popoli di Firenze presentati dall’Istituto nel Museo di Antropologia.
Ma ci furono anche momenti difficili. Nel 1968, nell’imminenza dei Giochi olimpici, le università messicane, e in modo particolare quelle della capitale, furono al centro di un movimento studentesco di denuncia dei gravi squilibri sociali del paese, che ebbe esiti tragici. L’Istituto italiano di cultura presentava per l’occasione una esposizione sullo “Sport nell’arte classica” che stavamo ancora allestendo. Ricordo che con Luciano e alcuni ospiti italiani, a chiusura della giornata di lavoro, andammo a cena in un ristorante italiano. Quando uscimmo, forse verso le nove, sentimmo le prime voci su una sparatoria che pareva fosse avvenuta proprio nella Piazza delle Tre Culture. In quei giorni si sentivamo spari dappertutto, spari di festa e di mortaretti, per salutare il gande evento sportivo, e si poteva perciò credere a un falso allarme. Ma Luciano, allarmatissimo, ci lasciò per correre a casa, dove per fortuna trovò incolume sua moglie Nunzia con i bambini. La sparatoria però c’era stata davvero. Terribile. Centinaia di morti, si disse. E più centinaia di feriti, tra i quali – sapemmo l’indomani – Oriana Fallaci, venuta a Messico come giornalista. Andammo a farle visita in ospedale. Le carceri traboccavano di arrestati. Se il mondo seppe che cosa era veramente successo sulla Piazza delle Tre Culture e poté misurare l’entità del massacro, fu soprattutto grazie alle notizie passate all’Ansa da Luciano.
Il Messico fu anche questo. Nei giorni e nelle settimane seguenti si cercarono i dispersi, si parlò a lungo di quell’eccidio. La vita riprese, nella normalità, sembrava. E noi riprendemmo il nostro lavoro. Mostre, concerti, conferenze, proiezioni cinematografiche, esposizioni. Ma si parlò molto tempo di Tlatelolco, se ne parlava ancora quando io partii per un’altra sede. Luciano restò più a lungo di me. Poi, nel 1974, partì anche lui per altri paesi. Nordici e freddi. Ma il Messico, dove gli erano nati i due bambini, gli era rimasto nel cuore. Quando vi tornò come direttore, nel 1979, l’Istituto aveva cambiato sede. Aveva lasciato il centro convulso e rumoroso e si era trasferito in un bell’edificio di epoca coloniale, un ex convento nel tranquillo quartiere residenziale di Coyoacan. C’era molto da fare in questa sede, più grande. E poi c’era il suo corso di italiano, che attendeva di essere completato. Vi restò ancora due anni, per chiudere la sua esperienza culturale all’estero nei luoghi luminosi in cui l’aveva iniziata.