di Giorgio Galli
Il pezzo qui riportato è estratto dalla “Storia del Pci. Il partito comunista italiano Livorno 1921 Rimini 1991” di Giorgio Galli, KAOS Edizioni, Milano, 1993. E’ già stato pubblicato, per gentile concessione dell’Autore, sull’opuscolo “Luciano Raimondi. Una passione civile” pubblicato in proprio dalla famiglia nel 1997.
Il dubbio e l’insoddisfazione per la politica del PCI guadagnavano terreno tra le masse che esso influenzava, anche se un’intensa azione propagandistica centrava l’attenzione sulle vicende della politica internazionale per diffondere l’impressione che la stasi in Italia era determinata dai rapporti di forza su scala mondiale e comunque compensata dal consolidarsi e dall’ampliarsi del “campo del socialismo”. Per tonificare il movimento venivano allora indetti i congressi provinciali, che però non preludevano al congresso nazionale ma a una meno impegnativa Conferenza che si sarebbe tenuta a Roma nel gennaio 1955.
Il gruppo dirigente, la cui posizione era saldissima, non poteva presentare comunque una bilancia confortante. Per quanto concerneva la politica estera, la campagna contro l’UEO – il patto militare che sostituiva la CED – veniva condotta dal PCI con particolare fiacchezza e sarebbe culminata nell’atteggiamento del gruppo parlamentare d’accordo con la presidenza della Camera e con altri gruppi per limitare al minimo indispensabile un dibattito che si sarebbe prestato, se non altro, a un certo sfruttamento propagandistico, date le preoccupazioni diffuse nell’opinione pubblica per il riarmo tedesco. Per quanto concerneva la situazione interna, il governo Scelba aveva superato la bufera dell’affare Montesi e appariva consolidato, mentre nelle fabbriche, in conseguenza della situazione già descritta, CISL e UIL conquistavano le prime significative vittorie nelle elezioni per le Commissioni interne. La IV Conferenza nazionale non affronta nessuno di questi problemi e l’atmosfera conformista di ottimismo ufficiale è rotta soltanto dalla diffusione di un documento che esprime in forma precisa uno stato d’animo che si andava diffondendo nel partito.
Un piccolo gruppo del quale facevano parte iscritti al PCI ed ex militanti espulsi per aver assunto atteggiamenti critici (fra i primi il comandante partigiano Luciano Raimondi e Bruno Fortichiari, tra i secondi Emilio Setti, responsabile del lavoro sindacale della Federazione milanese, allontanato per aver criticato la disastrosa tattica sindacale seguita) pubblicava una lettera ai delegati a firma “I compagni di Azione comunista” che criticava l’intera linea politica del partito. Si affermava infatti:
A dieci anni dalla vittoria sul fascismo e dall’insurrezione partigiana, possiamo segnare il bilancio di questa politica: lo Stato italiano ricostruito sulle basi tradizionali di comitato di affari della borghesia capitalistica, il movimento operaio costretto ai margini della società, perseguitato dall’apparato poliziesco dello Stato… L’Italia partecipe di un’alleanza militare rivolta contro l’Unione Sovietica… involuzione resa possibile da una disorganica resistenza del partito, come se a determinarla agisse una fatalità storica (l’onnipotenza degli americani nel nostro Paese, l’interpretazione opportunistica della politica di pace e di coesistenza dell’Unione Sovietica, la sfiducia nella forza e nella volontà di lotta delle masse).
Gli oppositori accettano l’impostazione del PCI sul progressivo affermarsi del “campo del socialismo” ma ne traggono conclusione opposte:
Lo sviluppo storico mondiale attesta il costante progresso delle forze della pace e del socialismo. Novecento milioni di uomini liberi, che non hanno paura della guerra, sono oggi affiancati spalla a spalla per difendere la pace e portare avanti il socialismo in tutto il mondo… I risultati e le tappe concrete dell’azione politica dei popoli che lottano tenacemente per la pace, la libertà e il socialismo si chiamano: rivoluzione cinese, vittoria in Corea e Indocina, conferenza di Ginevra, sconfitta della CED, movimenti di rivolta e liberazione in Tunisia, in Marocco, in Algeria, nel Kenia… Il nostro partito non si cura di spiegare alle masse il significato storico e rivoluzionario di questi avvenimenti, li sfrutta soltanto a fini interni di propaganda… In palese contraddizione con i successi delle lotte del proletariato internazionale, da noi si afferma che non ci è consentito allargare e condurre a fondo le lotte operaie in quanto non esisterebbero le condizioni internazionali favorevoli. E’ questa una teoria di comodo che serve unicamente a giustificare la politica temporeggiatrice e capitolarda del PCI e della CGIL. Non solo, ma con complice tolleranza si lascia circolare nel nostro partito la tesi secondo la quale sarebbe l’URSS a sconsigliare e ritenere storicamente inattuale una lotta a fondo in Italia… Sarà nella misura in cui anche noi italiani ci batteremo coraggiosamente per risolvere i nostri problemi interni che al tempo stesso porteremo il nostro contributo allo sviluppo della situazione internazionale. Fintanto che non faremo questo, non solo il nostro popolo resterà eternamente sottomesso al capitalismo… ma rappresenteremo una palla di piombo al piede del movimento mondiale socialista.
Gli oppositori concordano con la versione che il gruppo dirigente del PCI fornisce sulle forze storiche al centro della politica mondiale, ma reputano che sia precisamente la linea imposta da quel gruppo che determina la situazione negativa in Italia. E richiamano i due motivi basilari della loro azione: insofferenza del proletariato, rifiuto di adeguarsi al nuovo corso sovietico:
Da molti anni si è rinunciato all’azione frontale dello sciopero offensivo e a fondo… Questa pratica opportunistica ha creato profonda insofferenza nelle masse. L’astensionismo politico e sindacale è quasi generale in tutti gli stabilimenti italiani e la capacità di azione si indebolisce. I sindacati scissionisti realizzano importanti successi nelle elezioni delle Commissioni interne… l’organizzazione del partito, in tutte le sue istanze, mentre da una parte soffoca e rifiuta la discussione politica, dall’altra nonostante le esortazioni, i suggerimenti e gli esempi dei partiti fratelli, nulla oppone al metodo della direzione personale, al culto della personalità, rifiutandosi di sottostare ai principi della direzione collettiva.
La responsabilità dell’indirizzo in atto viene fatta risalire al vertice del partito, che ha improntato il PCI secondo un modello corrispondente ai suoi fini e al suo costume:
Nulla giustifica il fatto che a quattro anni di distanza dall’ultimo congresso (lo Statuto del PCI prescrive almeno ogni due anni la convocazione del congresso nazionale) a coronamento dei congressi provinciali non sia stato convocato il congresso nazionale…Di una questione tanto importante il compagno Togliatti e la segreteria del partito non hanno ritenuto di dare nessuna giustificazione politica…tipico esempio di direzione personale e di satrapismo politico… I quadri del partito sono dominati dall’opportunismo, dall’ambizione, dal conformismo e dalla paura. La vigilanza rivoluzionaria è stata trasformata in una vigilanza di polizia preoccupata soltanto di soffocare e controllare ogni voce di critica e di dubbio sulla politica del partito e sulla pretesa infallibilità dei dirigenti… Monopolio del vertice sono le designazioni dei dirigenti periferici e l’assegnazione delle circoscrizioni elettorali. Vige nel partito il gerarchismo nel tratto e nelle abitudini, l’infatuazione cieca e il culto meschino dei dirigenti. Nessun controllo e autocontrollo è rivolto al costume di vita di dirigenti e parlamentari e ai limiti della loro partecipazione alle abitudini e alle consuetudini di vita della società borghese… La burocratizzazione e la deformazione del costume è la conseguenza della mancanza di una effettiva lotta di classe e di una prospettiva rivoluzionaria.
Il documento che rispecchiava la realtà del PCI in nessun modo espressa dal tono ufficiale della IV Conferenza, dimostrava la volontà degli oppositori di sinistra di insistere nella loro azione.