Nel libro di Pietro Secchia e Cino Moscatelli, “Il Monte Rosa è sceso a Milano”, (Einaudi, Torino, 1958) è riportata un’attenta relazione sulle condizioni dei partigiani italiani comunisti, rifugiatisi in Svizzera dopo la caduta della Repubblica dell’Ossola. Appunto nel campo di prigionia del Lago Nero i partigiani iniziarono a organizzare i primi corsi di studio e nacque l’idea di una scuola del tutto nuova.
Circa quattromila partigiani di diverse formazioni, tra i quali settecento garibaldini, erano stati costretti nella loro ritirata da Domodossola a riparare in territorio svizzero. Tutti quelli che non avevano avuto l’avvedutezza di nascondere le armi in territorio italiano, man mano che arrivavano al di là del confine venivano disarmati dalle guardie elvetiche.
I partigiani esausti e feriti vennero curati e rifocillati, però ben presto furono sottoposti dalle autorità svizzere ad attenta sorveglianza e ad una rigorosa selezione. Gli appartenenti alle unità garibaldine vennero separati dagli altri partigiani ed inviati nel cosiddetto “campo speciale N1”. Questo era situato ad oltre mille metri di altezza in una stretta valle del cantone di Friburgo, sulla sponda di un lago circondato da rupi boscose: lo Schwarz See (Lago Nero). Gli altri partigiani vennero invece avviati in località meno impervie, e sebbene fosse stata operata in mezzo a loro una nuova selezione per discriminare i semplici partigiani dagli ufficiali, tuttavia tanto agli uni che agli altri venne riservato un trattamento umano e ospitale.
I garibaldini deportati nel campo del Lago Nero erano circa seicento, mentre un centinaio, riusciti a fuggire, in parte erano rientrati in Italia, in parte avevano trovato ospitalità presso famiglie di italiani emigrati in Svizzera. Le autorità elvetiche non erano riuscite ad individuare gli ufficiali, perché essi si erano tolti ogni grado o segno esteriore che li distinguesse dai semplici partigiani; comandanti e commissari erano così riusciti a restare con i loro uomini e a condividerne, come durante i combattimenti, le sofferenze del campo ed il destino comune.
I garibaldini non avevano alcuna intenzione di restare a lungo in territorio elvetico ed erano fermamente decisi a ritornare in Italia non appena ciò fosse stato loro possibile.
Al Lago Nero furono alloggiati in baracche (adibite normalmente ad ospitare i soldati svizzeri durante i periodi delle manovre) circondate da filo spinato e sorvegliate da numerosi soldati armati. Il vitto era scarso, rare le notizie che pervenivano dal di fuori, i partigiani non potevano uscire dal campo e sia dai soldati che dagli ufficiali svizzeri erano trattati in modo duro e insolente.
I garibaldini si accorsero ben presto di essere considerati non dei combattenti, ma dei prigionieri, anzi dei detenuti pericolosi. Per molti di loro la delusione fu alquanto amara. Erano giunti in territorio svizzero provati dai combattimenti e dai lunghi mesi di dura vita partigiana, deboli per la fame patita, molti di essi ammalati, non trovavano da parte delle autorità elvetiche né ammirazione né solidarietà umana; eppure avevano combattuto per la libertà. Quelli tra di loro politicamente più maturi non erano stupiti di tale trattamento, sapevano che il governo dei grandi capitalisti svizzeri non poteva avere della simpatia per i volontari della libertà e specialmente per i garibaldini, conosciuti come uomini che lottavano contro il tedesco e contro il fascismo per dare al loro paese un regime veramente democratico. Le autorità svizzere consideravano i garibaldini pressappoco come li definiva la propaganda nazista: dei “banditi”.
Un giorno che in conseguenza del cibo scarso e cattivo si levò una protesta collettiva, accorsero le guardie svizzere e puntarono contro i partigiani riuniti alla mensa una mitragliatrice, come se si fosse trattato di domare una rivolta di gangster.
A questo ridicolo atteggiamento delle guardie svizzere i partigiani rispondevano generalmente con delle risate e degli scherzi, il buon umore non mancava, il che però accentuava l’ira degli svizzeri, che consideravano inaudito il fatto che “quella gente” osasse deriderli e disubbidire.
Molti dei garibaldini, comunisti, socialisti, combattenti antifascisti, avevano l’esperienza delle carceri, del confino o dei campi di concentramento in Italia e in Francia, e organizzarono subito la vita collettiva con le ore per lo studio, per le conferenze e le riunioni politiche e culturali. Assieme agli operai e ai contadini, vi erano professori, giornalisti, intellettuali, e si svolsero così corsi di storia del risorgimento, di lingue straniere, di storia del fascismo e del movimento operaio, di economia politica, di materialismo storico, e così via.
La popolazione svizzera, e specialmente i numerosi italiani emigrati e rifugiati nella Confederazione, si prodigarono in ogni modo per aiutare i partigiani internati ed in particolare i garibaldini, ai quali le autorità elvetiche non riconoscevano i diritti che invece concedevano agli internati militari ed ai partigiani delle altre formazioni…
Poiché il vitto continuava ad essere cattivo, i garibaldini decisero uno sciopero della fame che durò tre giorni durante i quali nessuno di loro, malgrado le insistenze delle guardie svizzere, toccò cibo. La protesta fu assolutamente compatta, non una sola defezione. L’eco dello sciopero della fame giunse a Berna, i giornali svizzeri ne parlarono ed alcuni di essi presero aperta posizione contro l’indegno trattamento che veniva fatto ai garibaldini. La legazione del governo italiano protestò presso le autorità svizzere e si sviluppò fortemente la campagna delle organizzazioni antifasciste contro l’indegno trattamento riservato agli internati del Lago Nero. In seguito a tutto ciò le condizioni di vita dei garibaldini nel campo migliorarono.
Quelli che in un modo o nell’altro riuscivano a sfuggire alla sorveglianza scappavano dal campo con l’aiuto dei nostri amici svizzeri e attraverso le montagne ritornavano a combattere in Italia. Impiegavano per raggiungere lo scopo ogni sorta di strattagemmi. Ad esempio, alla vigilia di Natale, due garibaldini si offrirono volontari per preparare assieme agli altri, nella stalla che esisteva in fondo al campo, un grande presepe; fasciarono con molti rami di pino le pareti della stalla, nascondendosi poi dietro a questi rami e sfuggendo all’ispezione delle guardie svizzere. Nella notte uscirono da una finestrella e s’incamminarono sulla superficie gelata del lago; ma a un certo punto il ghiaccio si ruppe e sprofondarono nell’acqua gelida; salvatisi a stento, dovettero camminare tutta la notte per la montagna, nella neve alta, con i vestiti ghiacciati addosso.
Poiché le fughe aumentavano, ad un certo momento i garibaldini dal Lago Nero furono trasportati in altri campi sul confine tedesco. Ma nei mesi di gennaio e febbraio 1945 molti di essi riuscirono ugualmente a rientrare in Italia, per riprendere il loro posto nelle formazioni partigiane combattenti. D’altra parte, negli ultimi tempi, le fughe divennero più facili per l’interessamento del Comitato di Liberazione Nazionale, di cui vi erano rappresentanze a Lugano e a Berna, e della stessa legazione italiana, allora retta da Alberto Berio.