Domodossola, primi giorni di ottobre del 1944. La città è accerchiata dalle truppe nazifasciste, accorse in gran numero a riconquistarla. Gli uomini che governano la giovane libera repubblica si rendono conto che non c’è alcuna possibilità di resistere all’attacco. La vicinanza geografica con la Svizzera diventa chiave della salvezza: la Repubblica dell’Ossola aveva da tempo stabilito una rete di collegamenti con autorità e organizzazioni elvetiche, attraverso staffette che viaggiavano regolarmente. Al momento della sconfitta non è difficile per la ministra Gisella Floreanini concordare con la Croce Rossa svizzera l’espatrio di centinaia di bambini, che partono con un treno speciale per raggiungere la salvezza nella repubblica elvetica. Partono anche gli adulti, in lunghe file che si snodano nella neve caduta precocemente in alta montagna: alcune formazioni partigiane si dirigono verso la Valsesia, dove poter continuare la lotta; la popolazione civile e i gruppi di partigiani dispersi nelle valli interne o sugli alpeggi di alta montagna vanno verso la Svizzera, dove troveranno rifugio e cure.
I rapporti fra la Resistenza italiana e la Confederazione elvetica erano iniziati subito dopo l’8 settembre: il CLN Alta Italia aveva stabilito rapporti ufficiali con le autorità elvetiche, prima attraverso rappresentanti appositamente designati, come il socialista Rodolfo Morandi, poi dal 1944 con una Delegazione ufficiale, composta da rappresentanti dei cinque partiti del CLN, che intratteneva stretti collegamenti con la Legazione italiana di Berna e con i rifugiati italiani. Molto importanti erano anche i rapporti con gli agenti dei servizi segreti inglesi e americani, rispettivamente John McCaffery e Allen W. Dulles. Anche le singole formazioni partigiane dei territori confinanti con la Svizzera intrattenevano con relativa facilità i rapporti con organizzazioni ed istituzioni dell’altra parte del confine.
Nell’ottobre del 1944 la via verso la Svizzera rappresentò l’ovvio cammino di salvezza per migliaia di abitanti di Domodossola e di partigiani, alcuni dei quali si trovavano sugli alpeggi più alti e non ebbero altra scelta che sconfinare. In Svizzera i partigiani italiani, molti dei quali sofferenti o feriti, vennero ben accolti e curati, come testimonia il passo che riportiamo della biografia di Angelo C., tratta dal volume “Operai del Nord” di Edio Vallini, edito da Laterza nel 1957. Non tutti però poterono godere di un trattamento favorevole. I partigiani delle formazioni garibaldine vennero internati nel Campo speciale n. 1 allo Schwarz See, (Lago Nero) presso Friburgo, nella Svizzera occidentale. Oggi noto come ridente luogo di villeggiatura, allora fu la sede di una dura e difficile esperienza per i circa 600 garibaldini ivi detenuti, che – considerati tutti comunisti -subirono una grave discriminazione politica.
La Svizzera aveva dichiarato illegale il Partito Comunista all’inizio del 1940, e anche i rappresentanti alleati avevano forti pregiudiziali anticomuniste, che Secchia e Moscatelli avevano invano tentato di mitigare attraverso contatti via epistolare o mediante il loro rappresentante, Michele Lanza. Due lettere di Moscatelli, rispettivamente a McCaffery e al console americano a Lugano Donald P. Jones, con la richiesta di armi e munizioni per difendere la Repubblica dell’Ossola, non ebbero alcun esito. E il Presidente Ettore Tibaldi rammentava con amara ironia che gli aiuti promessi si erano concretizzati in un… pacchetto di caramelle.
Le pagine che riportiamo più sotto, dalla biografia di Pasquale Maullini nell’opera di Edio Vallini citata, e dal libro di memorie “Il Monte Rosa è sceso a Milano” di Pietro Secchia e Cino Moscatelli, ben descrivono la situazione dei partigiani garibaldini, imprigionati in un campo chiuso da filo spinato e sorvegliati notte e giorno da guardie armate, affamati, trattati come delinquenti. Riporta Carlo Musso nel suo saggio su “I garibaldini della Valsesia e la Svizzera”: “Le condizioni di vita in questo campo erano particolarmente penose, a tal punto che i partigiani decisero uno sciopero della fame per protestare contro l’insufficienza di cibo e le condizioni di prigionia… In questa circostanza fu esercitata opera di pressione sia verso le autorità svizzere sia verso la Legazione italiana di Berna perché intervenissero direttamente. Lo stesso Moscatelli si indirizzò a Berio, incaricato d’affari italiano in Svizzera, affinché facesse in modo che i garibaldini del Lago Nero ottenessero la qualifica di internati militari, alla stessa stregua di tutti gli altri ritiratisi dall’Ossola, e ne venissero migliorate le condizioni di vita. Da parte del Comando garibaldino fu sempre rivolta grande attenzione alle condizioni degli internati, cercando di mantenere il contatto con i campi… Per i garibaldini costretti all’internamento in Svizzera fu fondamentale l’attenzione rivolta alle loro condizioni. La coscienza di non aver perso totalmente i legami con il proprio comando si rivelò determinante per mantenere quella fiducia e quella forza necessarie per far fronte a una situazione di difficile isolamento”.
Il periodo di sosta forzata viene comunque sfruttato per organizzare riunioni, discussioni, letture, corsi di storia del Risorgimento, di materialismo dialettico, di lingue straniere, in base all’esperienza già fatta dai militanti comunisti nelle prigioni fasciste e nelle sedi di confino. Nell’attività culturale si distingue un giovane professore di filosofia, già commissario politico della Decima Brigata Rocco, Luciano Raimondi, “Nicola”. L’esperienza di quell’insegnamento verrà ripresa nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione, con la creazione del primo Convitto Scuola della Rinascita a Milano, ad opera di tre insegnanti, lo stesso Raimondi, Claudia Maffioli e il filosofo Antonio Banfi, e tre giovani partigiani, Angelo Peroni, Guido Petter e Vico Tulli.