Il SOE e l’Italia

 

Il SOE – Special Operations Executive, Esecutivo operazioni speciali – fu un’organizzazione inglese attiva per tutta la durata della seconda guerra mondiale, allo scopo di fomentare la resistenza contro gli occupanti tedeschi in tutta Europa. Ne ha recentemente ricostruito la storia completa lo storico francese Olivier Wieviorka nel suo libro “Une histoire de la Résistance en Europe occidentale”, dove si dedicano alcune decine di pagine all’Italia.

Alla metà del 1940 l’Inghilterra si trovava in una situazione di completo isolamento: le armate di Hitler nel giro di tre mesi avevano occupato quasi tutta l’Europa, l’Italia e la Spagna erano alleate di Hitler, l’Unione Sovietica gli si era legata con il patto Molotov-Ribbentrop. Gli Stati Uniti restavano chiusi nel loro splendido isolamento. Le scelte strategiche per l’Inghilterra erano limitate. Non restava che un’ultima opzione: la guerriglia. Spingendo i popoli alla rivolta, moltiplicando ovunque le azioni di sabotaggio, il Reich millenario si sarebbe trovato in difficoltà.

Hugh Dalton, un insigne economista che occupava la carica di Ministro dell’economia bellica, aveva a lungo riflettuto sulla storia: dalla guerriglia spagnola contro Napoleone alla guerriglia allora in corso contro i giapponesi in Cina. Dalton inoltre era laburista: credeva fermamente nel potenziale rivoluzionario dei popoli oppressi. Scriveva: “Bisogna organizzare i metodi più diversi, inclusi il sabotaggio industriale e militare, gli scioperi e le agitazioni nel mondo del lavoro, una propaganda incessante, atti terroristici contro i traditori e i capi tedeschi, boicottaggi e rivolte.” (1) La sua non era un’opinione isolata: neppure il primo ministro Winston Churchill era insensibile al fascino della guerra non convenzionale, che da giovane aveva sperimentato personalmente in Sud Africa. Alla metà del 1940 Churchill lanciò la proposta di creare un’organizzazione specifica per la guerra sovversiva. Il 22 luglio 1940 nacque ufficialmente lo Special Operations Service, aggregato al Ministero dell’economia bellica, sotto la direzione di Dalton. La sua missione era stata espressa icasticamente da Churchill: “Incendiate l’Europa”.

Il SOE in origine era diviso in tre settori: il SOE 1, affidato a Reginald (Rex) Leeper, del Foreign Office, si dedicava alla propaganda; il SOE 2, sotto la direzione di Colin Gubbins, organizzava le operazioni speciali; il SOE 3 si occupava di ricerca e pianificazione. Molto presto però il 2 e il 3 vennero fusi dando luogo a un nuovo organismo, il Political Warfare Executive (PWE).

La propaganda puntava in primo luogo sulla radio. Nell’Europa occupata era un mezzo di comunicazione già abbastanza diffuso: milioni di persone potevano ricevere le notizie e le parole d’ordine, e diffonderle. La propaganda del SOE 1 si svolgeva su due registri: quella “aperta” o “bianca” consisteva in messaggi provenienti da fonti chiaramente identificabili, autorità britanniche o governi in esilio. Si svolgeva non solo alla radio, ma anche con volantini e giornali che la RAF lanciava sull’Europa. La propaganda “nera” o “mascherata”, svolta da Unità radio speciali, doveva essere anzitutto non identificabile come britannica, e tendeva a seminare confusione, per esempio portando la voce di fascisti critici verso Mussolini, o di francesi disgustati da Pétain.

L’Unità radio per l’Italia, più conosciuta come Radio Londra, iniziò le trasmissioni nel novembre 1940; era affidata all’allora corrispondente a Londra dell’EIAR, Ruggero Orlando, che venne ben presto affiancato da altri tre, un cattolico, un liberale e un repubblicano, che con il socialista Orlando coprivano lo spettro politico italiano, esclusi i comunisti. Il discorso era concorde: tutti parlavano di un nuovo Risorgimento che avrebbe dovuto eliminare il fascismo, concludere la pace e terminare il dominio tedesco.

La seconda direttrice di azione del SOE prevedeva l’invio di agenti, inglesi o stranieri, con il compito di formare cellule clandestine nei paesi occupati. Le missioni organizzate negli anni 1940 e 1941 non ebbero esito brillante, e quanto all’Italia, non vi fu alcun movimento.

Per l’Italia Hugh Dalton fece il tentativo di instaurare a Londra un governo italiano in esilio, sull’esempio della France Libre del generale De Gaulle. Per l’operazione venne scelto Carlo Petrone, un cattolico antifascista rifugiato in Inghilterra fin dal 1939. Nel gennaio del 1941 Petrone fondò un Comitato Italia Libera, che peraltro non ebbe l’approvazione del Foreign Office: Petrone era del tutto sconosciuto in Italia, le sue capacità politiche sembravano limitate, il suo ascendente nullo. La crisi scoppiò nel luglio 1941: alcuni componenti del Comitato revocarono Petrone e nominarono alla presidenza Alessandro Magri, uno degli speaker di Radio Londra. Secondo il Foreign Office, “il dottor Petrone, come da noi previsto fin dall’inizio, è una persona assolutamente inadatta ad essere il leader di un movimento”. Il Comitato venne sostituito da un Movimento Italia Libera, anch’esso ridotto presto all’impotenza, non essendo rappresentativo della situazione politica, sociale, religiosa e psicologica dell’Italia del tempo. Nel dopoguerra Petrone diventerà deputato della Democrazia cristiana e si occuperà di agricoltura.

Nel gennaio 1941, con l’offensiva lanciata in Libia, gli inglesi fecero prigionieri circa 100.000 soldati italiani; fra questi si pensò di trovare dei volontari disponibili ad affiancare le truppe alleate al fronte. Però, come scrisse Gubbins nell’ottobre 1941, “i soldati italiani catturati sono in grande maggioranza perfettamente felici di restare prigionieri e non mostrano alcun desiderio – sia per denaro che per altre ragioni – di tornare al loro paese con atteggiamento avventuriero”. Di fatto, per gli italiani era più difficile pensare di combattere a fianco degli ex nemici contro i loro amici, alleati e connazionali.

Nel 1941 si verificano due eventi importanti: in luglio Hitler attacca l’Unione Sovietica e in dicembre i giapponesi bombardano la flotta americana a Pearl Harbour. L’Inghilterra non era più sola, entravano in gioco i due giganti. Ciò comportava un ripensamento delle strategie del SOE: ora, con l’entrata in guerra dell’Unione Sovietica, anche i comunisti diventavano alleati; nella lotta contro il nazifascismo si immettevano dei militanti sperimentati, che già avevano dato prova di sé nella guerra di Spagna. Ma i dirigenti comunisti si ponevano un dilemma: le loro formazioni dovevano combattere da sole, oppure allearsi con le forze di sinistra, oppure ancora favorire ampie unioni nazionali? Nella riunione del 24-25 giugno del 1941, il Comintern votò una direttiva, comunicata il 7 luglio ai partiti comunisti dell’Europa occupata, con la quale si indicava di “realizzare la più ampia unità organizzando immediatamente un Fronte unico nazionale. Per realizzare questo obiettivo si tratta di contattare tutte le forze, indipendentemente dalla loro tendenza politica, se sono forze che si oppongono alla Germania fascista”.

Quanto agli Stati Uniti, all’entrata in guerra alla fine del 1941 non disponevano di alcuna organizzazione, tranne i servizi di informazione militari. William J. Donovan, un giurista di origine irlandese, molto vicino a Roosevelt, dopo un viaggio di inchiesta in Europa presentò al Presidente un memorandum circa il pericolo di infiltrazioni di agenti segreti stranieri e la necessità di creare un servizio destinato alla “guerra sovversiva”, come il SOE. L’11 giugno 1941 Donovan venne nominato Coordinatore dell’Informazione e creò due strutture, il Foreign Information Service (FIS) per trasmissioni radiofoniche antitedesche, e il Research and Analysis Branch, costituito da docenti universitari. Dopo Pearl Harbour, il 25 febbraio 1942, la struttura, rinominata Office of Strategic Services, ebbe l’incarico di “organizzare e condurre operazioni segrete sovversive nelle zone nemiche” e venne posto sotto comando militare. Malgrado le differenze con i servizi inglesi, si stabilì una cooperazione fra le due sponde dell’Atlantico.

Sempre nel febbraio 1942, a Hugh Dalton subentrò Roundell Cecil Palmer, barone di Selborne, un buon conservatore lontano da idee socialiste; come direttore del SOE arrivò Charles Hambro, un banchiere di origine danese, che come braccio destro mantenne Gubbins. Continuava la duplice azione del SOE: appoggio ai gruppi di resistenti e alle azioni di sabotaggio che contribuivano sempre più a ostacolare la vita del Terzo Reich nei paesi occupati. Obiettivo ne fu in particolare la Norvegia: il fiore all’occhiello del SOE fu l’attacco contro le installazioni per la produzione dell’acqua pesante, un elemento necessario per realizzare l’arma atomica. Nel novembre 1943 il battello che trasportava il prezioso carico verso la Germania affondò in seguito a un’esplosione. Purtroppo vi persero la vita anche 14 civili innocenti, ma Hitler dovette fare a meno dell’atomica. Fu uno splendido successo, controbilanciato peraltro da altrettanti insuccessi, soprattutto in due paesi, l’Olanda e l’Italia.

In Olanda la rete costruita dal SOE venne infiltrata dallo spionaggio tedesco, con un bilancio catastrofico in termini di perdite umane e di materiali. Per quanto riguarda l’Italia, dopo i tentativi malriusciti del Comitato e dell’arruolamento di soldati italiani prigionieri, il SOE tentò di agire attraverso un’antenna impiantata nel Canton Ticino dal febbraio 1941. John McCaffery, sotto la discreta etichetta di addetto stampa, aveva l’incarico di intrattenere i rapporti con gli italiani, in primo luogo con piccoli gruppi di antifascisti presenti in Svizzera. Ma le speranze furono presto deluse: i pochi antifascisti erano “cospiratori da salotto, che riponevano tutta la loro fiducia nei manifesti e nei graffiti”. Peggio ancora, un paio di gruppi dalla denominazione roboante erano creazioni dirette dell’OVRA. L’unica speranza seria comparve nella persona di Emilio Lussu. Scrittore già noto, aveva fondato il Partito sardo d’azione, nettamente antifascista, e poi, insieme con i fratelli Rosselli e Gaetano Salvemini, il gruppo di Giustizia e Libertà. Lussu contattò i servizi inglesi proponendo un piano che prevedeva un’insurrezione in Sardegna, la creazione di un corpo militare e lo scoppio di ulteriori insurrezioni in Sicilia, Piemonte e Venezia Giulia. Ma si trattava di un piano non realistico, che esigeva l’impiego di grandi mezzi, e per di più Lussu esigeva garanzie sull’avvenire dell’Italia, che il SOE non poteva dare. Non se ne fece nulla.

Rispetto all’Italia pesava poi un grosso equivoco: per il futuro, quale trattamento riservarle? Quello di paese vinto e costretto alla resa senza condizioni, come la Germania, oppure uno status più favorevole, soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando era stata riconosciuta la “cobelligeranza”? Un dilemma che non fu mai risolto con nettezza, tanto più che l’Italia si era spaccata in due: al meridione il Regno del Sud con la monarchia Savoia sotto tutela degli Alleati che risalivano la penisola, e al nord la Repubblica sociale di Mussolini, dove fioriva il movimento partigiano, in gran parte comunista. Era un movimento che non si limitava ai compiti che il SOE assegnava ai gruppi di resistenti, incaricati di raccogliere informazioni e organizzare sabotaggi. I partigiani portavano avanti un’autentica guerra di guerriglia, prendevano le redini della vita civile, costituivano vere e proprie enclaves di libertà. In questo senso, le repubbliche partigiane furono un serio campanello di allarme, in quanto i dirigenti del SOE – ma anche i funzionari del Foreign Office – paventavano una divisione del Paese, fra un sud monarchico e alleato, e un nord – ricco e industriale – nelle mani dei comunisti. Non a caso, la repubblica dell’Ossola, che essendo al confine aveva le migliori possibilità di mettersi in contatto con McCaffery, non ricevette alcun aiuto. Eppure Cino Moscatelli, con l’assenso di Pietro Secchia, aveva scritto a McCaffery, chiedendo esplicitamente armi e munizioni per difendere la zona libera. Non solo: come scrive Carlo Musso, Moscatelli nella sua lettera fa “un’accorata difesa dell’immagine e della dignità delle formazioni garibaldine, spesso screditate dagli Alleati e dagli ambienti moderati dell’emigrazione politica”. Moscatelli scriveva: “Delle nostre formazioni fanno parte giovani di tutte le tendenze politiche, o meglio giovani che di politica non ne sanno niente e pensano solamente a combattere per liberare la loro patria. Tale è la nostra direttiva, cioè lottare contro i tedeschi e contro i fascisti nella guerra di liberazione a fianco degli Alleati, senza preconcetti di partito, al di sopra di ogni idea o credo religioso… Non è vero che i commissari politici svolgono un’intensa propaganda a favore del partito comunista… Per ciò che concerne la libertà di culto nelle nostre formazioni basta chiedere ai parroci di tutta la Valsesia, i quali si sono spontaneamente offerti come cappellani per le nostre formazioni”. Nonostante questo, gli aiuti alleati alla Val d’Ossola furono praticamente nulli.

D’altra parte gli Alleati, al di là dei loro palpiti anticomunisti, non potevano non riconoscere l’importanza e l’efficacia dell’azione partigiana. Nel maggio 1944 il generale Harold Alexander sottolineava con soddisfazione che la resistenza nel nord immobilizzava sei delle venticinque divisioni tedesche stanziate nella penisola, confermando l’importanza strategica di quello che veniva definito “l’esercito delle ombre”. Pochi mesi più tardi, in ottobre, il colonnello Cecil Roseberry insisteva: “La resistenza in Italia settentrionale è un fattore molto serio. Nella sua forma attiva (sabotaggi e ostilità armata) essa costituisce una fonte costante di esasperazione per il nemico… Nella sua forma passiva, essa priva di migliaia di lavoratori l’industria bellica italiana e permette agli operai di evitare la deportazione in Germania. Inoltre offre agli Alleati informazione di tipo sia militare che politico”. A conti fatti, conveniva venire a patti con il CLNAI; il 7 dicembre 1944 i Protocolli di Roma, firmati dall’inglese Sir Henry Maitland Wilson e da Ferruccio Parri per il CLNAI, definiscono la situazione: il CLNAI si impegna a seguire le istruzioni degli Alleati, a riconoscere l’autorità del governo italiano e a garantire il mantenimento dell’ordine; in cambio riceve un aiuto mensile di 160 milioni di lire e viene considerato come rappresentante legale delle autorità di Roma nell’Italia occupata. Il potere regolare e la resistenza del nord infine si riconoscono reciprocamente, il che elimina il pericolo di una secessione nordista – e comunista.

A questo punto il SOE, che aveva insediato una propria base a Monopoli, in Puglia, si convince che la resistenza italiana svolge un compito importante: forte di 80.000 – 100.000 volontari, poteva appoggiare le truppe alleate che erano state costrette a ritirare dal fronte italiano sette divisioni nell’estate del 1944 e poi ancora cinque divisioni nell’inverno successivo. Ai partigiani vengono assegnate tre grandi missioni: attaccare le comunicazioni per ostacolare i movimenti del nemico, immobilizzare le divisioni tedesche soprattutto in Piemonte, e infine appoggiare e sostenere le operazioni dell’esercito alleato. Il problema era quindi quello di armare i partigiani, ma i lanci non si rivelano precisamente un vantaggio: il tempo era spesso troppo inclemente, gli aerei – dei Dakota – si rivelarono inadatti alla missione, il materiale cadeva spesso nelle mani di tedeschi e fascisti; inoltre gli alleati temevano sempre che le armi cadessero in mani troppo rosse per esser loro gradite. Commenta uno storico inglese: “Limitando l’afflusso di armi per la resistenza italiana, i militari britannici e americani sacrificavano un vantaggio tattico alla loro ossessione per l’ordine e la legge”. Il SOE non apprezzò questo comportamento, e ancor meno apprezzò l’editto di Alexander che esortava i partigiani a tornare a casa. “Quando avete chiamato i partigiani a combattere una guerra aperta, non è giusto lasciarli cadere come una patata bollente. Quegli uomini si sono bruciati i ponti e non hanno alcuna possibilità di ritirarsi. Se non li riforniamo di munizioni, quel che li attende è la morte sotto tortura”, scriveva Lord Selborne. I comandi militari finirono per cedere alle pressioni di natura politica, militare e morale del SOE e aumentarono i lanci: 437 tonnellate di materiale nel gennaio 1945, 900 tonnellate in febbraio, 200 missioni alleate paracadutate ad appoggiare le formazioni partigiane. Questa collaborazione accrebbe il prestigio degli Alleati, rianimò il morale dei partigiani e aiutò a coordinare le azioni; gli Alleati dimostrarono maggiore fiducia nei partigiani, i quali d’altra parte liberarono più di cento città prima dell’arrivo delle truppe alleate, stabilendo un’organizzazione amministrativa che lasciò stupiti inglesi e americani; un documento del SOE riconosce esplicitamente che “il contributo dei partigiani al salvataggio delle strutture della loro economia si può considerare l’aspetto più eccezionale del ruolo che essi hanno svolto nella campagna d’Italia”.

Conclude Wieviorka: “Con o senza l’aiuto delle forze clandestine, gli Alleati sarebbero comunque riusciti a liberare l’Europa occidentale… ma senza l’aiuto della resistenza, la liberazione avrebbe avuto un corso diverso, più lungo, più costoso e doloroso… La Resistenza aveva partecipato alla vittoria militare con esito brillante e contribuì alla stabilità della situazione politica, evitando che i paesi d’Europa occidentale piombassero nel caos”.

Il SOE venne chiuso rapidamente appena finita la guerra, nel 1945. I documenti relativi vennero secretati e tali restarono fino al 1997: infatti l’organizzazione aveva appoggiato anche la guerriglia antitedesca di Tito in Jugoslavia e di Enver Hoxha in Albania e in tempi di guerra fredda non si trattava precisamente di meriti. Ma ormai gli storici possono guardare al secolo XX sine ira ac studio, e riflettere serenamente su quegli avvenimenti di cui oggi ancora portiamo l’eredità.

  1. Tutti i passi citati fra virgolette sono tratti dal libro di Wieviorka citato.

Nunzia Augeri